La mia prima barca, un Nicholson 38 che mio padre acquistò molti anni fa in Inghilterra e sulla quale navigai per due estati.

Mi arriva una mail qualche giorno fa tramite il contact form: chi l’ha scritta mi domanda se Harpsong of Spinola, la “mia” prima barca di cui parlo nella sezione Io e Lei, possa essere quella sulla quale ha navigato insieme ad un amico alla fine degli anni ’70, prima anni ’80.

Intrecciamo un po’ di dati e deve essere proprio lei.

Erano anni che non ci pensavo più e mi domando che fine hanno fatto tutte le foto che mi ricordo di aver visto nei vari album di famiglia e sulla scrivania di mio padre nel suo ufficio.

Piove, avrei molto da fare, ma non mi va. Non c’è nulla di meglio che perdere tempo così. Cerco tra le scatole ammassate in un lungo e basso ripostiglio che fa da controsoffitto all’ingresso. La polvere copre centinaia di scatole di diapositive e foto piegate e ingiallite dal tempo. Mi riassale la malinconia di quando, a tredici anni, passavo pomeriggi interi a guardarle cercando di scolpire nella memoria l’immagine di mio padre.

Harpsong of Spinola era un Nicholson 38 (qui un po’ d’info). Disegnato da John Alden, armato a ketch, concezione da motorsailer dei mari del nord con un cockpit centrale coperto da un windscreen alla H&R e una copertura rigida che permetteva di affrontare qualsiasi tempo in condizioni asciutte (un paio hanno circumnavigato il globo), era stato acquistato da mio padre in Inghilterra e da lì portato con una lunga navigazione fatta con un suo amico che ne divenne anche proprietario per una piccola quota.

Il primo inverno lo passò gran parte tirata a secco, con mio padre che lavorava all’interno per fare alcune modifiche e io che dipingevo di vari colori la catena e passavo il coppale sulle molti parti in legno. Quando mi annoiavo salivo sulle altre barche a secco e, di volta in volta, mi trasformavo in un audace navigatore, un pericoloso pirata, un losco contrabbandiere.

Un pomeriggio tardi, correndo tra le barche, non vidi una sbarra di ferro che sporgeva e mi aprii sul cranio una lunga ferita. Mi presentai ai miei genitori con il sangue che colava sul viso: mia madre svenne e mio padre mi fece una specie di turbante con un asciugamano per fermare il sangue e mi portò di corsa al Pronto Soccorso dove mi misero 13 punti che per me valevano più dei dobloni di qualsiasi tesoro.

L’estate successiva partimmo un pomeriggio da Fiumicino per passare un mese in Sardegna. Allora le previsioni del tempo erano solo i bollettini meteo molto meno precisi di quelli attuali. Beccammo un brutta botta, con venti forti e onde altissime che colpivano la barca da tutti i lati facendola a volte piegare fino a portare le crocette in acqua. Dovevamo impiegarci 24 ore e, invece, ne impiegammo poco meno di 48.

Vedo ancora mio padre che esce in coperta per prendere le mani di terzaroli e mettere il fiocco da tempesta, da solo, mentre le onde s’infrangevano su di lui e il suo amico faticava a tenere la barca.

Nel giro di poco tempo stavano tutti male sotto coperta e al timone c’era solo mio padre che mangiava pane e formaggio e fumava una sigaretta dopo l’altra. Verso le quattro della seconda mattina il mare si era un po’ calmato, mi svegliò mentre mi ero appisolato nel pozzetto e mi disse: ho sonno, devo andare a dormire, timona dritto così finché non vedi terra e mi svegli. E scese di sotto lasciandomi la barca. Qualche ora dopo il sole si levò, apparve la Sardegna e svegliai mio padre che preparò pane e cioccolato e lo mangiammo insieme mentre ci avvicinavamo alla costa.

Dell’estate dopo mi ricordo poco, solo che mio padre lavorò molto e passò a prenderci all’Elba ad agosto inoltrato. Probabilmente siamo rimasti in zona anche perché ho chiara l’immagine di una notte ventosa all’ancora fuori dal porto di Capraia e molti bagni tra Cavoli e Fetovaia.

Quell’inverno l’Italia conobbe una delle peggiori stagioni del terrorismo. Mio padre era un probabile bersaglio e la vita si fece per lui difficile. Senza dirlo a nessuno a volte, durante la settimana, usciva dall’ufficio, prendeva la macchina, guidava fino a fiumara e passava la notte in barca, da solo, bordeggiando davanti a Fiumicino.

Nel frattempo aveva disegnato una barca in collaborazione con Van De Stadt, il Pacific 555, e ne stava costruendo due esemplari, uno per noi e uno per un suo amico. L’idea era di lasciare tutto e andarsene in giro per il mondo. Morì quell’inverno, improvvisamente, dopo un viaggio in Africa e 10 giorni di coma.

L’Harpsong of Spinola fu venduto qualche mese dopo. Ero troppo piccolo per tenerlo.

Ne ho finalmente trovato una foto, dai colori sbiaditi, un po’ come la memoria, anche se ricordo ancora perfettamente quel sorriso di rughe agli occhi mentre mi passa pane e cioccolato e io so che è orgoglioso del suo piccolo mozzo.